È un ragazzo duro, critico, che vorrebbe correre di più. Ma è anche pratico e curioso. Non è facile raccontare di Yusupha e del suo cammino verso l’autonomia: “Nella vita ogni cosa che fai devi rischiare per farla”
Yusupha per chi fai il tifo agli Europei di calcio? “È ovvio, per l’Italia. Secondo te per quale squadra dovrei tifare? Sono contento che abbiamo vinto contro l’Austria. Al momento dei goal ho urlato e tutti mi guardavano. Oltre alla Nazionale le mie squadre del cuore sono il Liverpool e la Juventus, perché c’è Cristiano Ronaldo”. La partita l’ha vista nel convento di Trastevere dove vive accolto dai frati. È un ragazzo inquieto, alla ricerca di quel futuro che vorrebbe già stringere nelle mani ma per il quale c’è ancora da combattere. È entrato nel programma di Fare Sistema proprio per questo: per essere accompagnato a trovare una strada. Sa benissimo che non è facile. Grazie a FSOA e ai fondi dell’8X1000 dell’Unione Buddhista Italiana, sta svolgendo un tirocinio presso una ditta nel quartiere di Montesacro. “Ancora non riesco a mantenermi da solo. Vorrei che non fosse così: spero di trovare presto un lavoro fisso e organizzare la mia vita. Ognuno deve cercare di essere responsabile di sé stesso e capire cosa può fare e cosa non può fare”. È questa libertà che Yusupha confessa di desiderare: essere più autonomo. Aggiunge: “Il futuro arriverà. Arriveranno le cose positive”.
Yusupha è in Italia dal 2017. Era piccolo, sedici anni appena, quando è sbarcato a Lampedusa. La sua terra di origine è il Gambia, un piccolo Paese dell’Africa Occidentale. Viveva in un villaggio, con la mamma casalinga e il papà insegnante in una scuola coranica. Lui aiutava nei lavori di casa, studiava il Corano e giocava a pallone in strada con gli amici. Fin quando ha sentito il desiderio di cambiare vita, migliorare la prospettiva del futuro. Allora, seppure giovanissimo, si è messo in viaggio, senza una meta precisa: “Cercavo solo un posto dove stare meglio”.
L’itinerario è stato lungo, e Yusupha ha attraversato mezzo continente. È salito su un pullman che lo ha portato in Senegal, poi su un altro fino in Mali. Ancora un cambio pullman fino in Burkina Faso. Da qui ha attraversato il deserto su un veicolo apposito assieme ad altre persone. Si sono persi e sono rimasti senza acqua. Racconta: “Mi ricordo che faceva tanto caldo e io ero il più piccolo di tutti. Per fortuna qualcuno mi ha aiutato”. Quattro-cinque giorni in queste condizioni, poi l’arrivo in Libia. “A Tripoli c’era la guerra. Un signore arabo, che aveva perso il figlio, mi ha aiutato in tante cose, per mangiare e per sopravvivere in quella città”. Gli diceva anche che era meglio andarsene in fretta dalla Libia perché era troppo pericoloso rimanere, non si poteva sapere quello che sarebbe successo con la guerra in corso. Per questo, una notte lo ha accompagnato in riva al mare dove c’era una barca ad aspettarlo. Ma il primo tentativo di fuggire non è andato a buon fine. È stato arrestato e portato in prigione. Il suo amico lo ha fatto uscire. Yusupha ha provato di nuovo a imbarcarsi, c’è riuscito, ammassato con un centinaio di ragazzi su una piccola imbarcazione, senza spazio per sedersi e per respirare. Hai avuto paura? “Sì. Nessuno sa come va a finire: o vivi o muori. Ma io non avevo esperienza, non sapevo che poteva essere così pericoloso. Nella vita ogni cosa che fai devi rischiare per farla”.
Arrivati nelle acque italiane, alcune imbarcazioni li hanno messi in salvo. Yusupha non sapeva dov’era, non conosceva la lingua, ma capiva che non era più possibile tornare indietro.
E adesso? È grato ai frati con i quali vive, in convento si trova bene, anche se sente il peso della mancanza di autonomia. Sa che il tirocinio è una fase di passaggio. Vorrebbe parlare meglio l’italiano. Vorrebbe prendere la patente. I suoi vent’anni scalpitano. Cosa ti manca del Gambia? “L’abbraccio dei miei genitori. Ho perso mio padre l’anno scorso. Non lo potrò rivedere mai più”. E questa tua vita che ti stai costruendo a Roma? “Ci provo. È complicato. Quando qualcuno critica il colore della mia pelle, non rispondo, vado avanti. Mi sento male dentro, mi dispiace, ma non dico nulla. A che serve essere razzisti?”.
Yusupha sta per chiudere il racconto della sua vita dicendo che adora mangiare le lasagne. Poi, arrivato ai saluti, esita e dice sorridendo: “Adesso però tocca a te raccontarmi qualcosa. Sono io che intervisto te”. E inizia a far domande.