Elena e Guglielmo Rea abitano ad Arzano, vicino Napoli. La loro è una delle prime famiglie in Campania ad avere aderito alla rete FSOA, che mira a favorire l’inclusione dei minori stranieri non accompagnati. Tre anni fa, infatti, hanno aperto le porte della loro casa a Biggie, mettendo a disposizione il loro tempo per offrire al ragazzo un ambiente familiare in cui poter condividere e confrontarsi. All’inizio avevano qualche dubbio: “Sentivo di non potercela fare”. Ma una volta conosciuto Biggie e la sua storia si è creato “un legame indissolubile”. Che continua anche ora che il giovane è diventato maggiorenne
Elena, come è nata la vostra decisione di aderire alla rete FSOA?
Nel 2017 ci fu chiesto da alcune famiglie del Movimento dei Focolari di aderire a questo Programma per avviare il progetto anche nella nostra regione. Avevo qualche dubbio. I miei tre figli erano già grandi e sentivo di non potercela fare a confrontarmi con un minore. Non nascondo che quando i miei erano bambini avevamo pensato all’esperienza dell’affidamento, ma non avevamo dato seguito a questo desiderio. Comunque, quando è arrivata la proposta di aderire a Fare Sistema ne abbiamo parlato in famiglia. E abbiamo preso la decisione di accettare, tutti insieme, mettendo da parte i dubbi. Non rimaneva che rimboccarsi le maniche.
Quanti figli avete?
Tre. Un maschio di 40, una femmina di 35 e un altro maschio di 28 anni. Nel 2017 vivevano tutti qui con noi. Adesso è rimasto solo il più piccolo. C’era un disegno, evidentemente: nostra figlia ha sposato un ragazzo senegalese, hanno tre bambine, ora si sono trasferiti in Francia.
Una volta data la vostra disponibilità cosa è successo?
È successo che abbiamo conosciuto Biggie. Lo abbiamo accolto. Quando lo abbiamo incontrato la prima volta aveva diciassette anni e si trovava in una casa di accoglienza per minori a Lago Patria (frazione di Giugliano, in Campania).
Ti ricordi come è stato il primo incontro?
Non lo abbiamo conosciuto subito, abbiamo prima parlato con il personale della casa di accoglienza senza di lui. Solo in seguito è stato organizzato un incontro con Biggie. Ed è stato molto bello. Quando è arrivato, ci ha abbracciato come se ci conoscesse da tempo. Eppure ha un carattere riservato. È un ragazzo educato. Ci avevano spiegato che era venuto in Italia con i barconi ed era in crisi per la morte del papà, un medico gambiano. Ci avevano consigliato di non parlare di questa perdita per non intaccare la sua sensibilità. Invece il primo a parlarne è stato proprio lui quando ha sentito che mio marito lavorava in ospedale come ostetrico: forse questa cosa gli ha fatto ricordare il papà.
E da allora qual è stato il percorso di inclusione?
All’inizio avevamo dato la nostra disponibilità a trascorrere del tempo con lui una volta al mese. Mio marito lavorava ancora e offrire una disponibilità maggiore era troppo complicato. Poi abbiamo iniziato a conoscerlo… e allora…
Che cosa facevate?
La prima volta siamo andati fuori a mangiare. Da allora ci organizzavamo per andare a prenderlo per trascorrere la domenica in famiglie spesso a casa nostra. I tempi tra un incontro e l’altro si sono accorciati: a volte una settimana, a volte quindi giorni. Gli incontri sono diventati più frequenti. Una delle prime volte siamo andati in un centro commerciale. Biggie non aveva mai visto un centro commerciale. Per lui quell’uscita era importante: si era vestito elegante, con la giacca. Quando ha compiuto diciotto anni abbiamo festeggiato insieme nella casa di accoglienza: ci ha invitato, ha cucinato per noi. Abbiamo cercato di coinvolgerlo sempre di più: durante le feste, nelle cene fuori, nel nostro anniversario di matrimonio, in tante occasioni. Guglielmo e i miei figli lo andavano a prendere e lo riaccompagnavano. Biggie si è legato molto ai miei ragazzi.
Vi ha mai raccontato di come è arrivato in Italia?
Sapevamo solo che era arrivato su un barcone fino a Lampedusa. E basta. Una volta stava guardando un servizio al telegiornale in cui si raccontava degli sbarchi dei migranti, gli ho chiesto “Perché guardi con tanta attenzione? Anche tu sei arrivato così? Per te come è stata?”. Non mi ha risposto e io ho non ho insistito. Però poi è successa una cosa… bella…
Cosa?
Biggie ha frequentato diversi corsi per imparare un mestiere. In uno di questi ha conosciuto una regista che gli ha chiesto di raccontare la sua storia in una rappresentazione teatrale. Lui ha accettato. Così siamo andati a vederlo. Lo spettacolo si intitolava “Nel mare le strade”. E lì abbiamo capito veramente per la prima volta il suo dolore, la sua anima (nella rappresentazione Biggie racconta di se stesso con queste parole: “Sono Biggie, vengo dal Gambia, ho perso il mio migliore amico in Libia quando ho attraversato il deserto e sono stato per cinque giorni senza bere e senza mangiare. Eravamo trentatré siamo arrivati in diciassette. Ho dormito a terra tre mesi. Non ho fatto la doccia mai per non sprecare l’acqua. Un litro per tre giorni. Tre mesi per trovare i soldi per partire verso l’Italia. Ci ha salvato una nave olandese e ci ha portato a Lampedusa. Io mi sono salvato” ndr)
Della sua famiglia cosa sapete?
Ha un fratello che era sbarcato con lui in Italia e ora vive a Londra: una volta me lo ha passato al telefono, mi ha detto in italiano: “Vi devo ringraziare per come avete accolto Biggie, se venite a Londra la mia casa è la vostra”. Un’altra volta mentre era qui da noi stava al telefono con la mamma che vive in Gambia, le diceva “sto con la mia Family love” riferendosi a noi.
Biggie è diventato maggiorenne, vi vedete ancora?
Sì. Anche se adesso lavora e quest’anno con il lockdown è stata un po’ più dura. Però ci sentiamo spesso.
Elena cosa ti ha insegnato questa esperienza?
Biggie è un ragazzo dolcissimo. Lui ci ha dato tanto. Si è sentito accolto in casa nostra, ma anche noi abbiamo imparato. Avendo già un genero musulmano avevamo cambiato visione del mondo, siamo diventati più aperti. Con Biggie siamo cresciuti ancora di più. È stato uno scambio reciproco.
Il resto della famiglia?
I miei figli sono cresciuti con i valori dell’accoglienza. Con il resto della famiglia abbiamo dovuto combattere un po’, c’è una mentalità chiusa, non c’è tanta comprensione.
Elena tu hai ricevuto un’educazione che ti ha insegnato ad accogliere gli altri?
Io ho 68 anni. Da piccola avevo un padre che ci ha trasmesso dei valori. Era una persona aperta, generosa. Poi ho conosciuto il Movimento dei Focolari e lì ho iniziato a capire che cos’è l’accoglienza, è qualcosa che viene da Dio, deve essere un’apertura del cuore, non è che apri la porta e fai entrare qualcuno, no, è l’anima, è il cuore che si apre per far entrare anche gli altri.
Guglielmo, tu come hai vissuto questa esperienza?
Aggiungo solo qualche considerazione alle cose già dette da mia moglie: i nostri ragazzi si sono sempre resi disponibili. Quando Biggie veniva a pranzo facevano in modo d’esserci anche loro, è diventata così un’esperienza familiare nel senso che ha coinvolto tutti e ci ha fatto crescere. Quando è uscito dal centro per minori gli siamo stati accanto perché era un momento delicato, gli si spalancava il mondo davanti, era diventato maggiorenne e abbiamo cercato di aiutarlo. Siamo riusciti a fargli avere un lavoro fisso, fa il mediatore in un centro di accoglienza.
Perché lo fai?
Per me è un’esperienza di vita, è dare amore con il cuore di carne. Non è dipeso da noi. La forza corrosiva è la volontà di Dio, noi siamo solo degli strumenti. La spinta interiore è quella che conta. Ogni volta che ci sentiamo con Biggie è la felicità che parla, mi aggiorna continuamente della sua vita. Il legame tra lui e noi è indissolubile.