Valentina Pignatiello lavora in Emilia Romagna come referente regionale per Fare Sistema Oltre l’Accoglienza. Segue i minori stranieri non accompagnati e alcuni neo maggiorenni nel loro percorso di inclusione perché – come lei stessa ribadisce – tutti hanno diritto a inseguire il sogno di una vita migliore
Qual è il tuo lavoro nell’ambito del programma Fare Sistema Oltre l’Accoglienza?
Sono referente regionale per dell’Emilia Romagna. Mi sposto tra Reggio Emilia, Parma, Modena, Bologna, fino sulla riviera, a Riccione.
In cosa consiste il tuo lavoro?
Cerco di capire quali sono le esigenze dei ragazzi beneficiari del programma Fare Sistema Oltre l’Accoglienza. Questo significa mettersi a disposizione in un’ottica di ascolto attivo e intercettare i loro bisogni: individuare chi può essere inserito in un percorso di inclusione e agire di conseguenza. Si firma un patto di collaborazione con il ragazzo o la ragazza disposti a partecipare a un piano di inclusione e si procede a garantire tutto il supporto di cui ha bisogno. Ogni percorso è diverso, perché ogni persona è diversa. Mi occupo – per esempio – di inserimenti abitativi, che sono molto complicati; di attivazione di tirocini; di richieste di disoccupazione… insomma supporti di varia natura.
È un lavoro molto particolare: quando e come hai iniziato?
Quello con l’AMU (che è capofila del Programma) è stato un incontro non casuale. Nella primavera del 2019 stavo terminando un progetto di ricerca con i servizi sociali del comune di Reggio Emilia. Tema della ricerca era la tratta degli esseri umani. Una mia amica mi ha girato un’offerta di lavoro pubblicata da AMU nella mia città, dicendomi “sei l’unica che può farlo a Reggio Emilia”. Effettivamente era proprio quello che avrei voluto fare e che di fatto sapevo fare.
Perché la scelta di lavorare nel sociale?
La scelta è stata dettata da questa semplice considerazione: cosa posso imparare e cosa posso dare in un settore in cui mi sento competente.
Veniamo ora al tuo rapporto con i minori stranieri e i neo maggiorenni beneficiari del programma FSOA: quali sono le difficoltà maggiori?
È difficile fare un discorso generico. Per quanto riguarda le donne, che hanno un percorso difficile di vita alle spalle – di tratta e di sfruttamento – la difficoltà maggiore è senz’altro quella di fidarsi. Per questo bisogna entrare in punta di piedi nella loro vita. Per i ragazzi, invece, i problemi da risolvere sono in genere più pratici: cercare una casa, perché c’è tanta diffidenza nei loro confronti; capire come funziona il mondo del lavoro in Italia, le norme che lo regolano, la burocrazia. Non è facile.
Che tipo di storie hanno in genere alle spalle?
Sono storie di coraggio, sono storie di scelte. Di famiglie di origine che a volte li supportano a volte no, e che si aspettano sempre qualcosa. Sono storie di aspettative. Che non vengono quasi mai soddisfatte. Storie di persone che partono il più delle volte poco consapevoli di quello che gli accadrà. Però sono tutte storie da ascoltare. Ognuna è diversa dall’altra. Sono persone che decidono di prendere in mano la propria vita per cercare condizioni migliori e a volte entrano in giri e in affari che non dipendono da loro e dai quali poi escono faticosamente. Quindi sì, sono storie di coraggio e di speranza.
Ci sono delle situazioni che ti hanno colpita in maniera particolare?
Tante. Da chi mi ha detto – in un italiano impeccabile – che desiderava fare un lavoro più intellettuale qui in Italia perché aveva studiato filosofia e psicologia del crimine nel suo Paese di origine. Alle ragazze che scappano e denunciano gli sfruttatori. Minorenni entrate nella rete della tratta assolutamente inconsapevoli e magari sotto le pressioni della famiglia di origine.
Che tipo di rapporto riesci a instaurare con questi ragazzi?
Il rapporto dipende molto dalle persone. Qualcuno mi fa dono di piccoli gesti di riconoscenza. Qualcuno mi manda messaggi vocali infiniti per raccontarmi piccoli e grandi progressi. Qualcun altro deve essere inseguito per capire come va la sua vita. Chi ti cerca per tutto, chi ti cerca per niente. Ma va bene così.
Cos’è un percorso di inclusione?
È un percorso che permette a una persona di essere inclusa in tutto, a 360 gradi. L’obiettivo è quello di incoraggiare l’autonomia di questi ragazzi.
Imprenditori e famiglie che aderiscono al programma Fare Sistema Oltre l’Accoglienza come interagiscono solitamente con i ragazzi, quali relazioni si instaurano?
Gli imprenditori mettono a disposizione le proprie aziende per accogliere i ragazzi e permettere loro di sviluppare delle competenze in ambito professionale, sposando così la filosofia di Fare Sistema Oltre l’Accoglienza e cofinanziando i tirocini. Le famiglie, invece, prendono i ragazzi sotto una sorta di ala protettrice: li invitano a pranzo e a cena la domenica o nelle giornate di festa oppure li portano con sé a fare delle gite. In pratica offrono ai minori stranieri non accompagnati quella sfera familiare di cui hanno bisogno avendo lasciato tutti i loro legami nella terra d’origine.
Cos’è per te l’“accoglienza”?
Il termine “accoglienza” ha un significato profondo. E tante sfumature. Per me che sono nata in un posto felice della terra, significa garantire all’altro un sacrosanto diritto: quello di migrare, di spostarsi, di cercare condizioni di vita migliori per sé e per la famiglia lasciata lontano. A noi, in quanto italiani, è concesso di andare – che so – a migliorare il nostro inglese all’estero o di espatriare in cerca di uno stipendio più vantaggioso. Perché non garantire lo stesso diritto a chi scappa da guerre o da condizioni di povertà? C’è chi accusa questi giovani di migrare solo a scopo economico. E allora? Quand’anche fosse così? Perché noi dobbiamo impedire a queste persone di inseguire un sogno? Ecco: “accogliere” significa aprire le porte di un Paese che è “nostro” solo perché vi risiediamo. Ma in realtà non appartiene a nessuno. I confini devono essere aperti. Le persone devono essere libere di spostarsi. Credo che dall’incontro con l’altro – altra cultura, altra religione, altro modo di vedere – possano nascere cose bellissime, pur nei compromessi che questi incontri richiedono. In tutto questo, l’importante è fare rete: non serve solo il mio operato, serve quello di tutti per porre le basi di una società migliore, accogliente, inclusiva.
Quali sono i momenti più belli del tuo lavoro? Cos’è che ti dà soddisfazione?
I momenti più belli sono i successi e gli… insuccessi fatti bene. Mi spiego. Un successo è quando un ragazzo o una ragazza iniziano un tirocinio, o un lavoro, o… anche a giocare a calcio in una società sportiva. Un successo è quando un ragazzo parte per il Senegal per andare a trovare la propria famiglia, vi rimane bloccato per il coronavirus e ne approfitta per insegnare agli altri a fare il pane, dopo averlo imparato in Italia come beneficiario del programma Fare Sistema. Gli “insuccessi fatti bene” sono tutte quelle cose che non vanno a buon fine ma aggiungono comunque un pezzetto del puzzle al percorso dell’autonomia. Contano anche questi. Eccome se contano.